Il cuore dell’Appennino Reggiano lo si potrebbe collocare nella sua località più antica, affascinante, bloccata nel tempo. A pochi chilometri dal confine con la provincia di Massa Carrara (e dunque con la Toscana), Cerreto Alpi rappresenta una perla rara, dove ancora è vivo il senso della comunità, assieme la magia della parola, alla lentezza, alla tranquillità. Ad agevolare tutto questo è un contesto unico, incastonato nelle montagne, in cui ci arriva da una sola strada che si incrocia sulla statale 63 del Passo del Cerreto. Il piccolo centro abitato, un centinaio di abitanti a malapena, fa parte del comune sparso di Ventasso, il più grande della provincia di Reggio Emilia, frutto della fusione di quattro municipi tra cui Collagna, di cui Cerreto Alpi in origine era frazione.
Molte persone negli ultimi anni sono arrivate fino a quassù per un motivo: qui, infatti, è nato e tuttora vive l’artista Giovanni Lindo Ferretti, una delle anime più controverse della musica italiana dagli anni Ottanta in poi. C’è chi arriva in questo paradiso appenninico per provare a cercarlo, magari scambiarci due chiacchiere. Come il giornalista Giorgio Tonelli in un servizio di TV7 di alcuni anni fa, visibile in calce a questo articolo.
Trovare la sua dimora non è difficile: per rispetto di privacy non vi diciamo nel dettaglio dove sia ma, ribadisco, non ci vuole molto. In paese tutti lo conoscono e sono fieri di avere un concittadino così illustre il quale, spesso, organizza degli eventi che lo vedono protagonista proprio a Cerreto Alpi.
Lasciamo la macchina all’imbocco del paese, appena superato il cartello, per poi incamminarsi. La strada stretta ci porta subito in direzione della chiesa di San Giovanni Battista, centro del paese, con la grande torre campanaria e, ai suoi piedi, una lapide ai caduti della Grande Guerra.
Cerreto Alpi è un trionfo della pietra con cui sono costruite le case e, in estate, anche dei fiori colorati che i cerretani hanno un po’ ovunque. Ora inizia la magia delle parole. Ogni casa ha un nome inciso in una targa di legno: Ca’ di Moliner, Ca’ di Ton… e poi spuntano fuori le parole di Ezio Comparoni, il cui nome d’arte era Silvio D’Arzo, tratte da ‘Casa d’altri’, il ‘racconto perfetto’ secondo Eugenio Montale che uscì postumo alla sua morte, avvenuta a soli 32 anni nel 1952 per leucemia. Dello scrittore reggiano si leggono vari passi in paese su alcune targhe poste in più punti, a ricordare la vita di questo borgo in cui nacque la madre Rosalinda. “Nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il giardino di casa – è uno dei passi citati – e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino a borgo. Le capre si affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri”.
Ormai siamo dentro un’opera visiva, non più in un paese. Quando si scende verso il fiume si trovano ancora pensieri e parole, come quelle di un amico lasciate sul muro di casa di una persona che non c’è più, Giuseppe Penserini: “È qui che con il martello battevi sul ferro e con la pialla lisciavi il legno per dare forma alle immagini che avevi dentro. E intanto accompagnavi il lavoro con il canto e la gente passando si fermava ad osservare, e tu avevi un sorriso per tutti , amavi il paese e la sua gente! Poi, un giorno come tanti, hai riappeso gli attrezzi, hai chiuso e la porta e sei tornato a casa. La porta non si è più riaperta. Oggi eravamo in tanti al ponte tutti con gli occhi lucidi e il cuore in mano ad aspettare Beppe con le rose in petto ‘tornavi da Milano’“. Non ho resistito a riscriverle, perché la magia delle parole ti rende per forza in piena sintonia con questo borgo appenninico.
Sempre D’Arzo fornisce una bellissima quanto pregnante descrizione: “Sette case. Sette case addossate e niente altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza, e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi“. Un borgo che ha subìto un grande terremoto nel 1920, varie contese nei secoli e trasformazioni: tra i suoi possessori anche il condottiero Castruccio Castracani degli Antelminelli, personaggio di cui spesso ci troviamo a parlare in più di un articolo.
Continuiamo a scendere al fiume, dove è stata dedicata una scultura allo scenografo reggiano Cesare Zavattini: il padre del neorealismo italiano era infatti innamorato di queste terre e spesso trovava rifugio qua. Come non dargli retta: lo scorrere del fiume e la vista di cui si gode da qua non ha descrizione. C’è poi anche un mulino che oggi è ostello, per chi cercasse come Zavattini, Ferretti e gli altri un rifugio artistico e meditativo. Sarà difficile, infatti, non tornare: una volta ripresa la strada del ritorno da questo borgo dell’Emilia, sentirete già la mancanza.
“Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così. Non dire una parola che non sia d’amore. Per me per la mia vita che è tutto quello che ho, è tutto quello che io ho e non è ancora finita… Finita…”.
Giovanni Lindo Ferretti, ‘Annarella’
Leave a Reply